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Vita spericolata
Ogni volta che pubblico un post sul mio blog è come lasciare una bottiglia nell’oceano. La metti in acqua e poi non sai chi là riceverà e cosa penserà di quello che c’è scritto. Forse il bello di un messaggio in bottiglia è anche quello, la misteriosità del destinatario. Il bello di scrivere per un blog è invece ricevere i commenti e le risposte degli altri, quindi comincio questo post ringraziando tutti quelli che seguono questo blog e che mi mandano le loro opinioni.
La seconda parte di questo post la dedico a una canzone che compie 30 anni, ed è “Vita spericolata” di Vasco Rossi. In primis perché è una canzone molto bella, che fa parte della storia della musica italiana e poi perché in questo periodo di incertezza sociale e personale, mi sento che si adatta perfettamente a quello che voglio. Spesso in realtà non so mai quello che voglio. In molti mi chiamerebbero indeciso, altri penseranno che sono pazzo, io semplicemente a volte sono frastornato davanti alle centinaia di vie che possiamo percorrere. A me piace vivere perdendomi tra le vie della vita, mi piace provare, assaggiare tutto, non riesco a stare fermo dove mi hanno partorito. Io voglio una vita spericolata, di quelle che non si sa mai…
Il passerotto
Se non l avessi fotografato penserei di averlo sognato. Quel passerotto che mi guardava dal vetro. Era ferito, senza mamma e non riusciva a volare chiuso nel mio balcone. Gli ho dato del cibo ed ha sbattuto contro il muro per scappare, poi l ho lasciato solo per non disturbarlo. Ora non c è più… È volato via. Mi ha insegnato che per volare bisogna prima sbattere il muso e aver così tanta paura di non farcela fino a quando non resta che buttarsi per poi volare in alto. Vi metto la foto, se lo vedete aiutatelo. È stato coraggioso e gli voglio bene, anche se mi ha cagato sul terrazzo…
Una promessa ai miei lettori
Ho appena finito di leggere l’interessantissimo saggio scritto dal mio prof. sulla “Trasparenza nella Costituzione italiana”. Mi dispiace perché probabilmente è stato il miglior professore che ho incontrato però leggere queste cose mi sembra un po’ come quando a scuola ti obbligavano a mangiare i fagiolini. Non c’è nulla di più brutto che dover leggere qualcosa che non ci interessa e lo dice uno che ama leggere (però quello che pare a me). Se fossi il Ministro dell’Istruzione, creerei un’Università dove l’alunno sceglie le materie che vuole e si decide il programma di studi che più gli aggrada. Non riuscivo a finire questo saggio perché continuo a pensare al mio libro, a come incastrare la trama, a dove inserire i personaggi, dove farli incontrare, cosa fargli dire. Voglio che mi esploda dalle vene questo romanzo e così mi sto allargando i tagli per far scorrere meglio l’inchiostro, anche se, come ovvio, un po’ brucia aprire vecchie ferite, ma per voi lettori questo ed altro. Darò tutto me stesso, dalla prima all’ultima pagina, è una promessa.
Capitolo 2 – Il salvatore
Il salvatore
La guerra è dura, il destino continua a colpire e ormai ho perso la concezione del dolore. Non capisco più dove ho male e perché. Se è frutto dei colpi subiti in passato o di quelli che continuano ad arrivare. Ormai sono tutto tumefatto, livido. Gli occhi sono due fessure e la realtà è annebbiata dalla fatica e dalla sofferenza. Chiudo gli occhi e vedo i tulipani bianchi, sento quel profumo di mela verde, odo il rumore del mare e delle risate mentre ci scattavamo quelle ultime foto insieme. Poi il destino ci mette del suo e mi pone davanti agli occhi continui segnali di quel Noi che ora non c’è più. Quanto è difficile dimenticarla… E dire che di prove ne ho superate e di fatti da dimenticare nella mia vita ce ne sono stati tanti. Però avevo sempre fatto fatica e adesso la storia si ripeteva. Per fortuna c’era sempre lui, il salvatore, che trovava un modo per riprendermi e farmi sorridere. E dire che tra di noi non era nata nel migliore dei modi. Quando avevo saputo della sua nascita ero rimasto totalmente indifferente, anzi un po’ spaventato dal fatto che potesse rubarmi il posto nel cuore di mio padre. Un fratellastro con vent’anni in meno, l’avrei visto una volta alla settimana per un paio d’ore quando andavo a cena a casa loro. Di certo non mi sarei mai affezionato a lui, il frutto della nuova famiglia di mio padre. Rifiutavo il fatto che avesse preferito un’altra a mia madre e ora avrebbe fatto uguale col nuovo arrivato. L’unica cosa che mi rendeva “felice” era che ora ero “l’uomo di casa”, da principe ero diventato Re e mi piaceva quando mia madre mi chiedeva di portare in casa la spesa o di accompagnarla al supermercato. Mi sentivo importante per la mia famiglia più di quanto possa esserlo uno stupido principino. Tutto l’astio per il mio “fratellastro” sparì però il giorno che nacque: ricordo ancora quando andai all’Ospedale di Faenza a vederlo, mi accompagnò mio zio con la sua moto sportiva. Arrivai là e mio padre me lo diede in braccio: era scuro dallo sforzo, cicciottello e non era bello come tutti i bambini appena nati. Avevo il terrore che mi cadesse e la grazia nel prenderlo di un elefante indiano, però da quel giorno iniziò a tirarmi su dal baratro.
Io vivo con il cuore
Non ho fame,
non ho sete
e nemmeno sonno
L’energia è dentro di me,
non ho bisogno di droghe.
La mia droga è l’amore.
L’amore annienta ogni necessità.
Io vivo con il cuore.
Io vs Dio (Capitolo 1)
1. Capitolo
Io vs Dio
C’è chi si trova nel baratro per colpa sua, chi non sa quando c’è entrato e come ci sia arrivato, nella mia storia invece c’è una data precisa. Un giorno in cui tutto è cambiato. Sono pochi i giorni nella tua vita che ti ricorderai per sempre. Di cui non dimenticherai nemmeno un particolare, nemmeno la faccia della donne delle pulizie che hai incrociato, nemmeno il colore della giacca che avevi e il profumo che indossavi… Sono meno di dieci i giorni che segnano la nostra vita. Due di questi sono il giorno della nascita e quello della morte. Se pensiamo che un uomo di 75 anni vive più di 27.000 giorni è incredibile pensare che la nostra vita sia influenzata da una quantità così minima di momenti rispetto al totale che trascorriamo a non fare nulla. Ma è così. Per me il giorno in cui iniziò tutto era il 15 Aprile del 2005, avevo 19 anni e non vedevo l’ora di arrivare ai venti, era un giorno qualsiasi, ma la mia vita cambiò un po’ come succede nei film. Mi addormentai giovane e mi svegliai uomo. Perché tutto succede quando meno te lo aspetti. Un giorno vai in ufficio al World Trade Center come tutte le mattine e ti vedi arrivare un aereo che punta dritto verso di te. Spesso non vedi arrivare nulla, spesso pensi che sarà risolvibile, ma a volte non ci puoi davvero fare nulla. E’ così che iniziò la mia battaglia personale contro Dio. Qualcuno doveva essere colpevole di quanto mi stava succedendo, qualcuno doveva pur rispondere a tutti i miei perché, alla mia incredulità. In quei momenti c’è chi prende Dio con sé e decide di giocarci insieme la partita della vita, decide che lui è l’uomo in più, quello che salverà la squadra. Io invece ho deciso di giocarci contro, di dimostrargli che ero più forte; me la doveva pagare per quello che mi aveva fatto e sapevo che un giorno mi sarei auto proclamato vincitore della disputa. Nel mio scontro virtuale sul ring, partii bene, mostrai coraggio e determinazione, affondai anche un paio di colpi. Mi sentivo forte, giovane e imbattibile, Lui lo sapeva e mi fece stancare, correvo saltavo e giravo intorno a lui che mi guardava con quel suo sorriso di scherno. Nei momenti in cui mi sentivo più forte lui mi colpiva. Ai reni, in volto, ma soprattutto nel centro del petto. Io incassavo bene, ma ormai ero una maschera di sangue e in quel duello l’arbitro non c’era. Si combatteva fino alla morte, quella era la regola. Spesso ho pensato di lanciare l’asciugamano, di arrendermi dinanzi alla sua forza. Ricordo ancora quel colpo che mi diede il Natale del 2010, quando finalmente mi sentivo felice, lontano da tutto avevo ricominciato a vivere. Stavo tornando per raccontarlo alle mie persone più care, mia nonna mi aveva chiamato chiedendomi cosa volessi mangiare al ritorno. Per loro il mangiare era un’arte, una fissazione, per me era solo benzina da mettere in corpo. Comunque per il mio ritorno da tradizione bolognese volli i tortellini. Tornai a casa, ma mia nonna non c’era ad aspettarmi, non ho più potuto abbracciarla. Se l’era presa con sé. Quella volta caddi al tappeto, salii sulla finestra e guardai sotto. Bastava fare due passi in avanti e tutto sarebbe finito. Avrei perso, ma era una battaglia in cui non c’era nulla da fare. Molti avrebbero pensato che ero un debole, ma nessuno aveva preso i pugni che avevo preso io e nessuno aveva mai battuto il destino. Non c’era più motivo di continuare, nemmeno mi ricordavo perché stessi combattendo. Il tempo mi aveva logorato, ero stanco stremato. L’arbitro contava i secondi che mancavano alla fine. I primi nemmeno li sentii, la mia testa e la mia anima avevano già mollato.
Iniziai a sentire il conteggio dal numero 5.
6.
7.
8… mi bussarono alla porta. Era il mio fratellino, mi voleva fare gli auguri di Buon Natale e darmi un biglietto con scritto che mi voleva bene. Guardai l’arbitro e feci segno di si con la testa. Tornavo a combattere, perché in fondo c’è sempre un motivo nel nostro cuore per non mollare mai.
Incipit
E’ notte fuori, spengo le luci e mi fumo una sigaretta. Il silenzio mi circonda, l’unico rumore è quello del mio aspirare. Mi fa schifo fumare, odio il sapore che mi rimane in bocca, quell’amaro sulla lingua, odio sentire l’odore della sigaretta sulle mie dita. Però di questa sigaretta ne avevo bisogno, mi placa. E poi è quella che avevo infantilmente capovolto nel pacchetto; è l’ultima, quella del desiderio da esprimere. Sinceramente non so cosa richiedere al genio del pacchetto delle Marlboro, ho tante troppe cose da cambiare nella mia vita. I miei rapporti con l’altro sesso sono fallimentari, da pochi giorni si è conclusa la storia con la mia ultima ragazza, che è entrata a fare parte del pacchetto nutrito delle ex. Ho un gruppo buono di amici, ma mi sento sempre solo. Vanno bene per ridere, bere un coca rum e guardare la partita la domenica allo stadio, però non riesco a raccontar loro i miei problemi, le mie angosce. Non ho un lavoro, devo laurearmi e gli anni di fuori corso superano ormai il numero delle ex fidanzate. E poi c’è quel problema lì, quello che non si risolverà mai, quello che solo la Divina Provvidenza può terminare. Il problema da cui è nato tutto, la frana che ha creato il baratro in cui sono cascato e da cui non sono ancora uscito. Forse potrei chiedere questo all’ultima sigaretta. Di uscire da questo baratro, di rivedere la luce. Di tornare a camminare nel mondo dei vivi, senza restare a fissarli da una finestra con una sigaretta di merda in mano.
L’attesa
Era ieri e mi insegnasti che l’attesa era piacere
ed era vero.
Ogni momento portava un sorriso
uno sfiorarsi di sguardi e di mani.
Ci annusavamo e ci guardavamo
come fa l’esploratore tra le foreste
inesplorate.
Oggi in quelle terre dove l’amore
rinverdiva i terreni
la guerra ha bruciato tutti i fiori
e l’attesa è divenuta straziante sofferenza.
Una boccata d’ossigeno
Mi stavo fumando una sigaretta. Faceva bel tempo, era incredibile come anche il tempo mi prendesse per il culo. Quando ero felice pioveva e in quei giorni lì, che ero a terra, lui rideva, risplendeva di luce in ogni angolo. Ero per terra in tutti i sensi, anche in quello letterale. Seduto su un marciapiede davanti al suo portone. Pensavo che era il mio momento più basso della mia esistenza, io a fare la posta sotto casa di una, disperato come un barbone. Poi pensai alla mia vita e trovai almeno un paio di punti più bassi e questo mi diede forza. In fondo poi ero lì per una buona causa. Ci avevo riflettuto a lungo e no non l’avrei implorata di riprovarci e mi ero imposto di non versare nemmeno una lacrima. Anche se avrei voluto baciarla e abbracciarla, non dovevo farlo. Lei magari l’avrebbe fatto, ma poi dopo poco sarebbe tornato tutto come prima coi soliti mille problemi. Ero lì solo per parlarle un’ ultima volta guardandola negli occhi, per uscire dalla mia solita passività, volevo solo vedere se mi riusciva a ripetere guardandomi in faccia quello che mi aveva detto squallidamente per messaggio. Che schifo la tecnologia, quanti momenti di vita ci ha tolto. Io chiedevo solo di essere solo lasciato a tu da una persona che ha il coraggio di guardarmi mentre lo fa. Era per quello che ero lì, che mi ero fatto duecento chilometri e che stavo aspettando da due ore e un quarto. Guardavo tutti i passanti come se da un momento all’altro dovesse sbucare lei, ma mai niente. Ormai era sera e di lei nessuna traccia, quando all’improvviso vidi una ragazza con un cappotto di pelle come il suo con un ragazzo al seguito. Mi si fermò la salivazione. Ma per fortuna non era lei. Ah in quel momento fui contento della mia miopia e poi mi dissi che si c’erano dei problemi come la distanza e qualche incompatibilità di carattere, ma in fondo lei era la ragazza di cui ero innamorato, non poteva essere così stronza da essere già con un altro il giorno dopo avermi lasciato. Ma come spesso era accaduto nella vita, avevo pensato troppo. Ero andato oltre. Infatti eccola arrivare dopo dieci minuti mano nella mano con quell’essere mitologico che incarnava tutte le scuse dei giorni prima. Contai fino a dieci, lei non mi aveva visto, potevo tornarmene a casa, fare finta di non aver visto niente e poi chiamarla al telefono urlandole il mio odio. Ah la mia solita passività… No basta questa volta no, avrei agito. E così la fermai, prima che aprisse il portone di casa a braccietto con lui. Era vestita con quella gonnellina che avevamo comprato insieme la settimana scorsa; era così contenta quando la comprammo. Probabilmente pensava già ad indossarla con lui nelle loro passeggiate sui navigli, con me ormai a stento si truccava e io scemo che le dicevo che era bella anche così, non avevo capito niente come tante altre volte. Cercai di mantenere il mio aplomb anche se tutti quei pensieri in testa volavano alla velocità della luce. Quando lei mi vide impallidì, scorsi una sorta di terrore nei suoi occhi e cercò di andare verso il portone di casa. La fermai per un braccio e le dissi : “Sono venuto per parlarti. E’ da oggi a pranzo che sono qua. Voglio solo parlare”. Lei stette ferma immobile come pietrificata e non apri bocca, cosa che fece invece il suo accompagnatore: “Hey chi sei? Cosa vuoi? Vedi di lasciarla in pace”
Ringraziando il corso di yoga mantenni una calma olimpica e risposi “Sono quello con cui ha fottuto fino a martedì scorso e vorrei capire da lei chi cazzo sei tu, anche se a dire il vero so già chi sei. Sei quello che si scoperà domani e che dopodomani sarai qua a disperarti come me perché ti ha sostituito con un altro”. Mi compiacqui della mia uscita brillante, ma notai che avevo creato un impasse nella discussione, nessuno diceva più nulla. Allora ripresi la parola e dissi a lei: “Possiamo parlare in privato dieci minuti per favore?”. Lei continuò a tacere e a fissarmi, al che lo “scopatore del domani” tornò alla carica e mi disse con lo stesso tono di prima: “Hey bello vedi di smammare”. Il corso di yoga non servì più. Non dissi nulla, ma gli diedi un pugno sul naso e sentii il rumore dell’osso rompersi. La sua maglia bianca si tinse di rosso e lei accorse a preoccuparsi delle sue condizioni. Io li guardai schifato e dissi: “Una che parla troppo poco e uno che parla troppo. Sarete una bella coppia”. Mi girai e me ne andai, era già buio e dovevo tornare a casa. La mano destra sul volante mi faceva un po’ male, ma il cuore era più leggero, avevo respirato dopo un apnea di 200 chilometri.